Le facce (nascoste) dell’Iran: Ahmad Hashemi, esperto ed interprete al Ministero degli Esteri, racconta…
feb 11th, 2013 | By redazione | Category: L'Intervista, Primo piano, Qui Medio Oriente
di Ehsan Soltani ed Enrico Oliari -
L’Iran si presenta sia esteticamente che internamente come una realtà poliedrica, dove gli interessi e le iniziative politiche che spesso si incuneano nelle aree di crisi in Medio Oriente ed in Africa, si scontrano con la tangibilità del dissapore in atto fra il presidente Mahmud Ahmadinejad e la Guida spirituale Alì Khamenei, in un paese strangolato dalle sanzioni e sull’orlo della crisi sociale.
Notizie Geopolitiche ne ha parlato con l’esperto in politica internazionale, già interprete di arabo, inglese e turco presso il Ministero degli Esteri, Ahmad Hashemi, dissidente, ora rifugiato in Turchia.
- Lei è stato impiegato per anni come esperto ed interprete presso il Ministero degli Esteri dell’Iran: che motivo c’è alla base del suo cambiamento di posizione e quindi del passaggio all’opposizione del regime?
“In realtà da sempre ero critico nei confronti del regime della Repubblica islamica, sia per i suoi aspetti interni, che esterni; dopo le elezioni del 2009 sono stato molto attivo nel Movimento Verde, per cui sono stato convocato da parte dell’apparato di Sicurezza de Ministero degli Esteri ed ho scelto di lasciare il paese. Alla base della mia decisione vi sono diversi fattori come la mia adesione alla campagna dell’”Ambasciata Verde”, l’iniziativa dei diplomatici contro il regime; inoltre, fin da quando ero all’università, avevo contatti con Hossein Alizadeh, incaricato di Affari presso l’ambasciata iraniana in Finlandia, come pure con Mohammadreza Heidari, impiegato presso il consolato iraniano in Norvegia ed era uno io stesso dei promotori della campagna di protesta dei diplomatici. Per quest’attività anti-regime sono stato quindi richiamato ufficialmente dal Ministero presso cui ero impiegato. Nel 2012 sono stato candidato per le elezioni parlamentari con altri indipendenti, con i quali avevo dato vita ad un’alleanza, esclusa poi dalla competizione elettorale dal Consiglio dei Guardiani: a questa censura mi ero opposto con forza, cosa per cui sono stato minacciato e licenziato dal Ministero. Ho quindi collaborato con alcuni giornali di area riformista, come Sharq e Etemad, occupandomi di Esteri, cosa che mi ha procurato continue intimidazioni, per cui ho temuto il carcere o di essere oggetto di attentati. Così il 13 giugno 2012 mi sono recato all’aeroporto per lasciare il paese, ma sono stato fermato per essere controllato minuziosamente; una volta rilasciato sono riuscito a partire, ma sono state esercitate pressioni su mia moglie perché tornassi. Abbiamo quindi entrambi chiesto aiuto all’Onu ed oggi viviamo entrambi in Turchia.
Siccome ho conservato informazioni importanti su riunioni a cui ho partecipato, il governo iraniano preme oggi sui miei famigliari perché torni a Teheran, cosa che è impossibile”.
- Ci fa qualche esempio di incontri a cui ha assistito?
“Ad esempio, in occasione della Conferenza per la messa al bando delle armi chimiche del luglio 2010, io so che l’Iran non è stato trasparente nei confronti degli altri partecipanti: è stato detto anche a noi interpreti di non fare riferimenti alla produzione bellica iraniana, come nel caso di Shahid Meysami.
Oppure, in occasione dell’incontro fra Qassem Suleimani, capo della Quds Force (Brigata Gerusalemme), il ministro degli Esteri iraniano ed il presidente dell’Eritrea Isaias Afewerki, del maggio 2008, tenutosi a Palazzo di Sa’dabad, si era parlato di aiuti economici ad Asmara e di aprire una base dei pasdaran presso Bab el-Mandeb, della produzione di armi che l’Iran avrebbe impiantato in Eritrea e della formazione dell’esercito eritreo per renderlo pronto ad intervenire contro la Somalia ed altri paesi africani: l’Iran avrebbe sostanzialmente allargato la sua zona di influenza in Africa ed avrebbe preso il controllo dell’importantissimo stretto che congiunge il Mar Rosso, il Golfo di Aden e quindi l’Oceano Indiano.
Nel 2010 il ministro della Difesa iraniano, Ahmad Vahidi, ha avuto un incontro con il responsabile del Centro di ricerca islamica Irti, Brodjounegoro: si è parlato della costruzione comune di armamenti fra i paesi musulmani, in particolare di missili a lungo raggio e di mezzi blindati.
Nell’autunno 2011 si erano invece incontrati il capo della Banca centrale dello Sri Lanka, il ministro del Commercio ed il presidente della Banca centrale dell’Iran per studiare strategie per eludere le sanzioni internazionali”.
- Lei ha affermato che l’Iran lavora per produrre armamenti in Africa, come d’altro canto già avviene in Sudan. Che ruolo hanno i pasdaran nel risveglio dei gruppi islamisti nel Continente Nero ed in particolare nella crisi del Mali?
“Come è successo per l’Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein, l’Iran cerca di portare la propria ideologia politica nei vari paesi in crisi, al fine di allontanare la tensione e quindi la possibilità di uno scontro con l’Occidente nel proprio territorio. In base a quanto so, Teheran sostiene lo Zimbabwe di Mugabe sia politicamente che economicamente; in Mali vi sono stati diversi incontri fra i responsabili dei pasdaran e Alpha Oumar Konaré, l’ex presidente ora ai vertici dell’Unione africana; in Nigeria l’Iran sostiene il Boko Haram; inoltre, dopo la Primavera araba, l’Iran ha trovato un terreno fertile nel Nordafrica. Per queste ragioni ritengo che Teheran abbia avuto un ruolo attivo nella crisi del Mali”.
- Ahmadinejad ha parlato di elezioni libere, mentre il capo del Consiglio di Sicurezza iraniano ha detto, in occasione del suo viaggio a Damasco, che l’Iran sosterrà sempre il regime di al-Assad: non le sembrano posizioni in contrasto?
“In realtà con queste uscite Ahmaninejad vuole far sapere della contrapposizione in atto con la Guida spirituale Khamenei, cosa che si evince anche dall’aver reso noto un filmato politicamente imbarazzante che ha riguardato il fratello del presidente della Camera, un fedele del regime. All’Iran va comunque bene una Siria instabile, in cui il conflitto si protrae a lungo, come pure la Repubblica islamica appoggia i curdi, i salafiti e gli alawiti, al fine di fortificare il suo ruolo internazionale e quindi garantire la sua sopravvivenza più a lungo. Ali Akbar Velayati, consigliere di Khamenei, ha detto in questi giorni che un eventuale attacco alla Siria sarebbe come un attacco all’Iran, anche se dopo il recente attacco di Israele sono stati tutti fermi, Iran, Hezbollah e gli altri alleati.
Al momento l’Iran, che si trova vicino a elezioni e che è strangolato dalle sanzioni internazionali, non ha la forza di portare avanti uno scontro, per cui Khamenei ha scelto di concentrare le sue forze su un una minaccia più importante per lui, che è, appunto, Ahmadinejad”.
- Gli statunitensi hanno proposto un dialogo con l’Iran, nel momento in cui Khamenei è d’accordo…
“Nonostante la contrarietà dei pasdaran, gli esperti del Ministero degli Esteri, consci del sentimento popolare, vorrebbero aprire canali di dialogo con gli Stati Uniti e lo stesso Ahmadinejad, che ha i sui sostenitori al Ministero, vorrebbe iniziare relazioni con l’Occidente. Khamenei, al contrario, è fermamente convinto che non ci debba essere alcuna apertura, in quanto i pilastri della Repubblica islamica e la sua legittimazione si fondano anche sull’antiamericanismo. Per questo posso assicurare che il dialogo rappresenta una linea rossa invalicabile per la Repubblica islamica, almeno fino a quando permane Khamenei al potere. La Guida spirituale inoltre vedrebbe nell’apertura di un dialogo con Washington una vittoria del suo oppositore, Ahmadinejad”.
Notizie Geopolitiche ne ha parlato con l’esperto in politica internazionale, già interprete di arabo, inglese e turco presso il Ministero degli Esteri, Ahmad Hashemi, dissidente, ora rifugiato in Turchia.
- Lei è stato impiegato per anni come esperto ed interprete presso il Ministero degli Esteri dell’Iran: che motivo c’è alla base del suo cambiamento di posizione e quindi del passaggio all’opposizione del regime?
“In realtà da sempre ero critico nei confronti del regime della Repubblica islamica, sia per i suoi aspetti interni, che esterni; dopo le elezioni del 2009 sono stato molto attivo nel Movimento Verde, per cui sono stato convocato da parte dell’apparato di Sicurezza de Ministero degli Esteri ed ho scelto di lasciare il paese. Alla base della mia decisione vi sono diversi fattori come la mia adesione alla campagna dell’”Ambasciata Verde”, l’iniziativa dei diplomatici contro il regime; inoltre, fin da quando ero all’università, avevo contatti con Hossein Alizadeh, incaricato di Affari presso l’ambasciata iraniana in Finlandia, come pure con Mohammadreza Heidari, impiegato presso il consolato iraniano in Norvegia ed era uno io stesso dei promotori della campagna di protesta dei diplomatici. Per quest’attività anti-regime sono stato quindi richiamato ufficialmente dal Ministero presso cui ero impiegato. Nel 2012 sono stato candidato per le elezioni parlamentari con altri indipendenti, con i quali avevo dato vita ad un’alleanza, esclusa poi dalla competizione elettorale dal Consiglio dei Guardiani: a questa censura mi ero opposto con forza, cosa per cui sono stato minacciato e licenziato dal Ministero. Ho quindi collaborato con alcuni giornali di area riformista, come Sharq e Etemad, occupandomi di Esteri, cosa che mi ha procurato continue intimidazioni, per cui ho temuto il carcere o di essere oggetto di attentati. Così il 13 giugno 2012 mi sono recato all’aeroporto per lasciare il paese, ma sono stato fermato per essere controllato minuziosamente; una volta rilasciato sono riuscito a partire, ma sono state esercitate pressioni su mia moglie perché tornassi. Abbiamo quindi entrambi chiesto aiuto all’Onu ed oggi viviamo entrambi in Turchia.
Siccome ho conservato informazioni importanti su riunioni a cui ho partecipato, il governo iraniano preme oggi sui miei famigliari perché torni a Teheran, cosa che è impossibile”.
- Ci fa qualche esempio di incontri a cui ha assistito?
“Ad esempio, in occasione della Conferenza per la messa al bando delle armi chimiche del luglio 2010, io so che l’Iran non è stato trasparente nei confronti degli altri partecipanti: è stato detto anche a noi interpreti di non fare riferimenti alla produzione bellica iraniana, come nel caso di Shahid Meysami.
Oppure, in occasione dell’incontro fra Qassem Suleimani, capo della Quds Force (Brigata Gerusalemme), il ministro degli Esteri iraniano ed il presidente dell’Eritrea Isaias Afewerki, del maggio 2008, tenutosi a Palazzo di Sa’dabad, si era parlato di aiuti economici ad Asmara e di aprire una base dei pasdaran presso Bab el-Mandeb, della produzione di armi che l’Iran avrebbe impiantato in Eritrea e della formazione dell’esercito eritreo per renderlo pronto ad intervenire contro la Somalia ed altri paesi africani: l’Iran avrebbe sostanzialmente allargato la sua zona di influenza in Africa ed avrebbe preso il controllo dell’importantissimo stretto che congiunge il Mar Rosso, il Golfo di Aden e quindi l’Oceano Indiano.
Nel 2010 il ministro della Difesa iraniano, Ahmad Vahidi, ha avuto un incontro con il responsabile del Centro di ricerca islamica Irti, Brodjounegoro: si è parlato della costruzione comune di armamenti fra i paesi musulmani, in particolare di missili a lungo raggio e di mezzi blindati.
Nell’autunno 2011 si erano invece incontrati il capo della Banca centrale dello Sri Lanka, il ministro del Commercio ed il presidente della Banca centrale dell’Iran per studiare strategie per eludere le sanzioni internazionali”.
- Lei ha affermato che l’Iran lavora per produrre armamenti in Africa, come d’altro canto già avviene in Sudan. Che ruolo hanno i pasdaran nel risveglio dei gruppi islamisti nel Continente Nero ed in particolare nella crisi del Mali?
“Come è successo per l’Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein, l’Iran cerca di portare la propria ideologia politica nei vari paesi in crisi, al fine di allontanare la tensione e quindi la possibilità di uno scontro con l’Occidente nel proprio territorio. In base a quanto so, Teheran sostiene lo Zimbabwe di Mugabe sia politicamente che economicamente; in Mali vi sono stati diversi incontri fra i responsabili dei pasdaran e Alpha Oumar Konaré, l’ex presidente ora ai vertici dell’Unione africana; in Nigeria l’Iran sostiene il Boko Haram; inoltre, dopo la Primavera araba, l’Iran ha trovato un terreno fertile nel Nordafrica. Per queste ragioni ritengo che Teheran abbia avuto un ruolo attivo nella crisi del Mali”.
- Ahmadinejad ha parlato di elezioni libere, mentre il capo del Consiglio di Sicurezza iraniano ha detto, in occasione del suo viaggio a Damasco, che l’Iran sosterrà sempre il regime di al-Assad: non le sembrano posizioni in contrasto?
“In realtà con queste uscite Ahmaninejad vuole far sapere della contrapposizione in atto con la Guida spirituale Khamenei, cosa che si evince anche dall’aver reso noto un filmato politicamente imbarazzante che ha riguardato il fratello del presidente della Camera, un fedele del regime. All’Iran va comunque bene una Siria instabile, in cui il conflitto si protrae a lungo, come pure la Repubblica islamica appoggia i curdi, i salafiti e gli alawiti, al fine di fortificare il suo ruolo internazionale e quindi garantire la sua sopravvivenza più a lungo. Ali Akbar Velayati, consigliere di Khamenei, ha detto in questi giorni che un eventuale attacco alla Siria sarebbe come un attacco all’Iran, anche se dopo il recente attacco di Israele sono stati tutti fermi, Iran, Hezbollah e gli altri alleati.
Al momento l’Iran, che si trova vicino a elezioni e che è strangolato dalle sanzioni internazionali, non ha la forza di portare avanti uno scontro, per cui Khamenei ha scelto di concentrare le sue forze su un una minaccia più importante per lui, che è, appunto, Ahmadinejad”.
- Gli statunitensi hanno proposto un dialogo con l’Iran, nel momento in cui Khamenei è d’accordo…
“Nonostante la contrarietà dei pasdaran, gli esperti del Ministero degli Esteri, consci del sentimento popolare, vorrebbero aprire canali di dialogo con gli Stati Uniti e lo stesso Ahmadinejad, che ha i sui sostenitori al Ministero, vorrebbe iniziare relazioni con l’Occidente. Khamenei, al contrario, è fermamente convinto che non ci debba essere alcuna apertura, in quanto i pilastri della Repubblica islamica e la sua legittimazione si fondano anche sull’antiamericanismo. Per questo posso assicurare che il dialogo rappresenta una linea rossa invalicabile per la Repubblica islamica, almeno fino a quando permane Khamenei al potere. La Guida spirituale inoltre vedrebbe nell’apertura di un dialogo con Washington una vittoria del suo oppositore, Ahmadinejad”.
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